martedì 8 luglio 2014

Figure del congedo, Davide Tartaglia, Italic Pequod


Eccolo, finalmente. E’ uscito “Figure del congedo”, la mia opera prima in versi, edito da Italic Pequod e introdotto da Filippo Davòli. A guardarlo ora è una cosa veramente “piccola” da sembrare quasi inutile. A cosa possono servire le parole inchiodate su queste pagine? Se ne dicono talmente tante, oggi. La poesia sboccia da ogni dove e, scorrendo la home di facebook, quotidianamente, è facile accorgersi come di parole ne leggiamo (o guardiamo)a milioni, tanto che il mio libercolo sembra quasi scomparire in questo fiume senza volto e senza nome. Tutto è già stato detto. La parola definitiva dei padri, di Dante, Leopardi, Ungaretti, Luzi, Sereni costringe a chiedersi: cosa c’è da dire ancora? Cosa, che non è già stato detto? Cosa c’è, in fondo in fondo, da aggiungere. Eppure, davvero la parola sembra non essere mai definitiva.
E’ un continuo divenire, una cosa viva e dunque cambia, cresce, inciampa, si evolve e può anche morire. Anche la parola altissima e irraggiungibile di Dante e Leopardi non è mai definitiva, si offre (anch’essa imperfetta), giunge fino alla soglia delle tue labbra, poi occorre la tua parola, occorre la tua voce.
In questo mondo serve il tuo pezzetto, che non è solo la parola poetica (anzi, questa è la minima parte, per fortuna), serve il martello del falegname, serve il genio dell’ingegnere, l’estro dell’architetto, serve la schiena piegata delle madri, ognuno al suo posto.
Ecco, questo libro, è il mio tentativo, balbettante ma sicuramente autentico, di dare la mia voce alla Parola. E servirà a poco, lo so, durerà pochissimo (come d’altronde noi) ma se anche solo un verso avrà la possibilità di aprire un varco, di scavare una crepa o addirittura di far baluginare una luce in chi s’ imbatterà in queste righe, allora, davvero, avrà raggiunto il suo scopo. Basterà così. Ed io avrò davvero pronunciato la mia parola.
Giovedì lo presenterò a Macerata insieme al maestro e amico Filippo, al compagno di avventure Enrico e agli amici di Quid Culturae.
La nostra rassegna estiva continua!



giovedì 19 giugno 2014

In rosso.

Ehilà, amico mio, come andiamo? Ti trovo bene. Beh, insomma, gli anni sono passati anche per te ma in fondo siamo in piedi, ti sembra niente? Come dici? Ah, certo, a vent'anni era tutto diverso, sembrava non dovesse finire mai, ma erano altri tempi quelli lì, ce lo siamo detti mille volte, non ripartirai mica con le tue paturnie!? Fammi il piacere. Ma poi, in fondo, tu cosa ti lamenti, guarda che ne hai solo sette di più. Come? Otto? Ah, nove. Beh, nove, ok, ma non fa così tanta differenza sai. Occorre arrivare da qualche parte, prima o poi. Hai sentito dell'incidente vicino casa tua? Come quando!? Oggi, bello mio. Sei proprio fuori, non sei cambiato per niente. Una macchina ha perso il controllo, deve essere stata la pioggia, è uscita fuori strada. A bordo c'era una ragazza giovanissima: morta sul colpo. Ah, non era sola, portava in grembo quello che sarebbe dovuto essere il suo primogenito, l'ha accompagnata anche lui. Se ne è andato, già prima di arrivare. Su, non fare quella faccia, te lo dico io: siamo fortunati, anzi graziati, siamo ancora qui a parlarci, possiamo ancora raccontarci la noia di questi solchi che ci scavano gli occhi, abbiamo ancora qualche bicchiere di vino e del sonno arretrato (prima o poi ce lo dovranno restituire). Possiamo ancora lamentarci del governo, della crisi, del tempo, dei soldi che mancano. Eh no, non avere fretta, arriverà anche il momento di raggiungere la ragazza col bambino. E sarà bellissima, sai? Mica come la immagini tu, mica come le foto sul giornale. Eppure ti sembrerà di averla già vista milioni di volte. Ci sederemo vicini, mangeremo le ciliegie da una cesta che non finisce e ci racconteremo del viaggio, ne rideremo insieme.
Credimi, sarà solo luce.



domenica 13 aprile 2014

Passetto


La notte saliva appena
da dietro le panchine
e noi eravamo già un punto
nello slargo.
Abitavamo uno spazio preciso
lungo la feritoia
dove entra il cielo
petrolio, insieme col mare.
A quell’ora si capisce appena
dove inizia l’uno
e finisce l’altro.
Noi lo sentivamo premere
il confine
quella sera d’aprile, il vento
ci mordeva la schiena.

Poco prima si schiudevano le promesse
con le finestre del viale
che si incendiavano di voci,
tv accese sui telegiornali
e il profumo di cena
si dileguava nella frescura serale.
Sembrava, davvero, non dovesse finire mai
quel suono di stoviglie sui piatti.
Tu eri qui -ricordo bene-
e mi dicevi che lo avremmo riempito
quel vuoto,
che gli occhi mai più li avremmo nascosti,
che le lacrime
le avremmo confessate.
Con le mani
avremmo costruito le nostre distanze
ma poi presto, un ponte
che le azzerasse.
Tutto questo dicevi
poco prima di scendere le scale
e guardare attraverso,
oltre, laggiù
dove tra i tigli
deflagrava il mare.

Quando si è aperto lo slargo
non hai detto più niente,
eri solo nera, nera più dell’acqua
e non eri più mia.

Ti brillava addosso
una manciata di stelle.

Davide Tartaglia

domenica 23 febbraio 2014

(gialli in controtempo)


Allo specchio indugio, a piedi scalzi
perdo tempo a riconquistarmi:
saltasse fuori una ruga
impavida, a decretare di nuovo
che anche oggi esisto.

Ma stanotte c’è stato il tuo braccio
a raccogliere, a dipanare
a slegare i polsi
la gola stretta in un intreccio
di lenzuola, incubi, fiati interrotti.

Me lo racconta
questo chiosare lieve di gialli
che dilaga in anticipo
oltre la pioggia di acqua e luce.

Davide Tartaglia

sabato 1 febbraio 2014

(a mio padre)


Guardavamo l’album di famiglia
e ti hanno crocifisso
su una fotografia, eri di spalle
con le mie spalle, la testa reclinata
leggermente a destra, per osservarmi.
Portavi i miei occhi abbacinati
eppure non mi somigliavano:
i tuoi erano forti e di terra
senza un filo di vento.
Gli alberi nel tuo cielo pallido
parlano una lingua chiara,
si chinano curvi, vigilano
che la sabbia non manchi mai
e l’acqua sia a sufficienza.
Portavi i miei occhi, come un abito
posticcio, appeso addosso
nel giorno della cerimonia.

Sei davvero tu, la figura
impressa nel dagherrotipo
il giovane sambuco in bianchennero
ancorato alla bandiera
che sventolava i verdi sogni?
O forse sono solo io
nel tentativo di somigliarti?

Risaliamo insieme
questo palmo di terra livido
per quello che ci è concesso, e tu
amerai a lungo, i miei tradimenti,
le assenze di luce nelle svolte.
Quando scenderai, ancora senza tremore
porteraì con te i miei occhi
che non hai mai avuto.

Davide  Tartaglia


giovedì 19 dicembre 2013

Matteo


Se ne sarebbero andati a casa come tutte le sere. Giusto il tempo di raccogliere le proprie cose, dividersi le ultime monete e accorgersi ancora una volta che non aveva vinto nessuno. Giusto qualche cent a dividere il trionfo dalla disfatta, ad ogni modo sarebbero bastati come pretesto per ritrovarsi di nuovo, la sera successiva a tentare la fortuna.
Cosa li spingesse, fino in fondo era un mistero: forse la noia, in fondo non c’era molto da divertirsi in città, l’unico svago, quando il lavoro lo permetteva era andarsene al lago per una gita. Forse sfuggire alla routine familiare, forse il mezzo litro di vino che si scolavano puntualmente in quella bettola intrisa di fumo.
Per Matteo era l’unico momento di riscatto, se la cavava bene con le carte: abilissimo a barare e con una bella dose di fortuna. Non bastava il lavoro infimo al quale era stato destinato per farsi odiare dai suoi concittadini, si guadagnava il disprezzo anche nel gioco. Probabilmente doveva provare anche un certo gusto nel farsi odiare, a volte sembrava quasi che ricevesse linfa vitale dalle occhiate di odio della gente.
Quella sera aveva vinto di nuovo i suoi pochi cent e come al solito con il ghigno avvolto nella folta barba, mentre raccoglieva quella miseria aveva ordinato al giovane Andrea di andare a pagare il conto. Andrea il vino non lo aveva neppure assaggiato. Se lo portavano dietro per spennargli qualche soldo.
Sì, era proprio una sera come tutte le altre sere. Antonio piegato sul tavolo rifaceva i conti per l’ennesima volta, anche stasera aveva perso e il vecchio Ermes con gli occhiali sulla punta del naso gli scostava appena il braccio per controllare che non barasse. Sarebbero riusciti puntualmente, anche stasera, ad andare su tutte le furie e Antonio avrebbe avuto la peggio.
Sarebbe stata la stessa identica storia. Il bar, il vino, le carte ed infine il passo veloce lungo la strada di casa che si illuminava a stento con le poche stelle che il cielo di Novembre regalava.
Ma ad un tratto dal fondo del locale entrò un uomo, alto, ben vestito ma umile nel portamento. Si avvicinò lentamente tagliando con decisione la coltre di fumo che riempiva la stanza.
Si fermò davanti al loro tavolo, perfettamente in asse con la luce arancio del lampione che filtrava dalla bocca di lupo. Ermes ed Antonio continuavano a litigare.
“Matteo” disse, riempendo il salone di silenzio. “Tu, Matteo!”
Non ci fu bisogno di dire altro. Matteo sciolse il pugno dalla quale cadevano i pochi cent.
Nessuno lo aveva mai chiamato così.


Davide Tartaglia

domenica 17 novembre 2013

Torneremo presto. Forse.

[...]

Con voi sono stato lieto

dalla partenza, e molto

vi sono grato, credetemi,

per l’ottima compagnia.



Ancora vorrei conversare

a lungo con voi. Ma sia.

Il luogo del trasferimento

lo ignoro. Sento

però che vi dovrò ricordare

spesso, nella nuova sede,

mentre il mio occhio già vede

dal finestrino, oltre il fumo

umido del nebbione

che ci avvolge, rosso

il disco della mia stazione.

[...]

(Giorgio Caproni)